Una piccola quantità di proteina
ferro-idrogenasi produrrebbe idrogeno sufficiente a riempire il serbatoio di
un’autovettura alimentata ad idrogeno in pochi minuti. Una sola molecola di
ferro-idrogenasi, infatti, può generare fino a novemila molecole di idrogeno al
secondo. Il problema sta nella riproduzione su scala industriale di questa
capacità.
Ora, un significativo passo avanti
sulla strada della progettazione razionale di catalizzatori sintetici capaci di
lavorare come quelli naturali è stato fatto dai recenti studi di tre
ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca: Maurizio Bruschi e Claudio Greco
del dipartimento di Scienze dell’Ambiente del Territorio e di Scienze della
Terra e Luca De Gioia, del dipartimento di Biotecnologie e Bioscienze. In collaborazione
con ricercatori di altre università europee hanno appena pubblicato tre
articoli sulle riviste Nature Chemistry e Journal of the American Chemical
Society che danno un contributo significativo alla comprensione del
funzionamento di queste macchine molecolari: hanno contribuito a risolvere
l’enigma della reazione grazie alla quale le ferro-idrogenasi si proteggono
dall’ossigeno molecolare evitando così di “arrugginirsi” e smettere di
funzionare. Hanno, inoltre, scoperto come ioni nichel, in natura così come in
molecole di sintesi, possano essere utilizzate al meglio per progettare le
celle a combustibile del futuro.
In natura le idrogenasi si trovano in
moltissimi batteri e alghe che le utilizzano per trasformare e quindi rendere
utilizzabile l’energia chimica contenuta nella molecola di idrogeno (la
reazione che avviene è H2 = 2H+ + 2e-). Ciò vuol dire che l’idrogeno può essere
usato da questi microrganismi come alimento, e tale capacità rappresenta un
esempio che l’uomo potrebbe sfruttare per lo sviluppo delle tecnologie che
consentono di usare l’idrogeno come combustibile (si parla in questo caso di
celle a combustibile). Ecco perché la scoperta di dettagli fondamentali del
funzionamento di questi enzimi segna il passaggio verso la possibilità di
progettare razionalmente celle a combustibile che funzionano nello stesso modo.
Nel dettaglio, il lavoro pubblicato su
Nature Chemistry, The oxidative inactivation of FeFe hydrogenase reveals the
flexibility of the H-cluster (https://doi:10.1038/nchem.1892) frutto della
collaborazione tra il team dell’Università di Milano-Bicocca (formato da Luca
De Gioia, professore associato di Chimica Generale e Inorganica nel
Dipartimento di Biotecnologie e Bioscienze e da Claudio Greco e Maurizio
Bruschi, ricercatori del Dipartimento di Scienze dell’Ambiente e del Territorio
e di Scienze della Terra), e i colleghi del Centre national de la recherche
scientifique – CNRS di Marsiglia (Vincent Fourmond, Carole Baffert, Pierre
Ezanno, Christophe Léger), dell’Université de Toulouse (Isabelle Meynial-Salles
e Philippe Soucaille), del dipartimento di fisica e astronomia dello University
College di Londra (Po-Hung Wang, Marco Montefiori, Jochen Blumberger) e
dell’Institut de biologie et de technologies de Saclay – iBiTec-S (Kateryna
Sybirna, Hervé Bottin), ha permesso di identificare caratteristiche, finora
sconosciute ed assolutamente peculiari, della struttura dell’enzima idrogenasi,
portando alla luce aspetti essenziali alla base della sua attività catalitica.
Tale studio ha, infatti, dimostrato
che il sito attivo (cioè la parte della molecola che attiva la reazione
biochimica) dell’enzima presenta caratteristiche di flessibilità inattese, alla
base della sua robustezza: i componenti del sito attivo dell’enzima mostrano un
grado di mobilità notevole, che consente all’enzima di interagire con
l’idrogeno in maniera anche non convenzionale, evitando così processi
potenzialmente distruttivi per la proteina. Più specificamente, è stato
scoperto in che modo la variante dell’enzima contente solo atomi di ferro sia
in grado di evitare reazioni dannose e di preservare la propria integrità anche
in condizioni di stress ossidativo.
Nello studio del Journal of the
American Chemical Society, Disclosure of Key Stereoelectronic Factors for
Efficient H2 Binding and Cleavage in the Active Site of [NiFe]-Hydrogenases
(https://doi:10.1021/ja408511y), firmato da Maurizio Bruschi e Luca De Gioia, i
ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca hanno indagato la variante
dell’enzima idrogenasi contenente anche un atomo di nichel, e hanno scoperto le
caratteristiche strutturali alla base della funzionalità del nichel in queste
proteine, che sono in grado di ossidare H2 con una grande efficienza. Lo studio
potrà avere un impatto decisivo sullo sviluppo di catalizzatori sintetici più
semplici rispetto alla proteina, ma in grado di ossidare H2 con la stessa
efficienza.
Lo studio, sulla stessa rivista, Redox
non-innocence of a N-heterocyclic nitrenium cation bound to a nickel-cyclam
core (https://doi:10.1021/ja4099559), è invece frutto della collaborazione tra
il team Bicocca e quello dell’Università Humboldt di Berlino, guidato da Kallol
Ray: i ricercatori tedeschi hanno sintetizzato una molecola innovativa
contenente un atomo di nichel, che ha la capacità di legare e trasformare
l’acido formico (più facile da immagazzinare rispetto all’idrogeno e presente
in grandi quantità nelle biomasse), mentre i ricercatori di Bicocca hanno usato
metodi teorici per svelare la base delle peculiari proprietà di questo nuovo
composto.
«Scoprire la struttura e il meccanismo
di funzionamento delle idrogenasi – spiegano i ricercatori di Milano Bicocca –
rappresenta una delle possibili chiavi di volta per la progettazione di celle a
combustibile a basso costo, dal momento che quelle attualmente disponibili sul
mercato necessitano della presenza di palladio o platino, più costosi del ferro
e del nichel utilizzati negli studi. A livello di tempistiche, stiamo parlando
di un possibile sviluppo nell’arco di quattro/cinque anni».
FONTE :CORRIERE DI SESTO